| Ormai la quasi totalità degli
    scienziati è concorde nel considerare fondamentalmente corrette le teorie cosmogoniche
    del Sistema Solare cosiddette nebulari, cioè quelle che fanno riferimento ad
    unorigine comune del Sole e dei pianeti, origine riconducibile al frazionamento ed
    alla successiva evoluzione di ununica nebulosa primordiale. Tali teorie sono concordi nell'ipotizzare un accrescimento graduale, con ritmi evolutivi
    differenziati, sia del Sole che degli altri corpi celesti del Sistema Solare, ma non
    sempre nell'analisi dei processi coinvolti in questa fase si ha uniformità di vedute,
    soprattutto quando si tratta di dover identificare i meccanismi fisici responsabili
    dell'innesco e del rapido sviluppo del fenomeno dell'accrescimento.
 Fino a qualche decennio fa, poi, la visione dell'origine e dell'evoluzione del Sistema era
    molto "tranquilla", nel senso che il meccanismo di accrescimento era inteso come
    un aggregarsi graduale di polveri che andavano a formare corpi di dimensioni via via
    crescenti, ed in questo quadro non era sufficientemente approfondita l'eventualità del
    manifestarsi di violente interazioni tra gli oggetti che si andavano formando o che già
    si erano formati. E' vero che, fin dall'inizio del secolo scorso, c'era la consapevolezza
    della natura extraterrestre del fenomeno meteoritico, ma esso era considerato quasi un
    meccanismo secondario, una caratteristica degenerativa occasionale dell'intero processo
    evolutivo, idea di fondo alla quale è possibile a grandi linee ricondurre l'ipotesi di
    Olbers (1805) del "pianeta distrutto" quale origine della Fascia Asteroidale (ed
    è proprio a tale ipotetico pianeta scomparso che si attribuiva la paternità della caduta
    delle "pietre dal cielo").
 In questa
    visione, i crateri che costellano la superficie lunare costituivano un vero e proprio
    mondo a parte, una sorta di eccezione che male si adattava all'idea del lento e graduale
    aggregarsi dei planetesimali, tanto più che l'altra superficie planetaria conosciuta,
    quella della nostra Terra, di tali strutture ne presentava ben poche
Il sorgere dei primi dubbi sul fatto che il meccanismo degli impatti fosse da considerare
    solamente un evento eccezionale si può già intravedere, a mio parere, negli studi di K.
    Hirayama sulle famiglie dinamiche degli asteroidi (il suo primo lavoro sull'argomento fu
    pubblicato nel 1918), geniale intuizione che spalancherà la strada alle più complesse ed
    approfondite elaborazioni successive.
 L'idea corrente nell'ambiente scientifico era, però, quella che tale situazione anomala
    caratterizzasse unicamente la Fascia degli Asteroidi, vista come una zona particolarmente
    affollata e caotica, alla quale ben si adattava il ruolo di biliardo cosmico; per il resto
    del Sistema Solare, invece, il modello era quello del perfetto meccanismo a orologeria che
    si muoveva seguendo il rigore matematico racchiuso nelle leggi di Keplero.
 Ad ogni modo, seppure lentamente, avanzava la consapevolezza che il meccanismo di
    accrezione planetaria non doveva consistere unicamente nell'aggregarsi di polveri, ma
    doveva prevedere la formazione di oggetti sempre più grandi che risultavano, quasi in un
    meccanismo a gradini, dall'unione dei corpi della precedente generazione.
 E questa crescita gerarchica doveva inevitabilmente prevedere che oggetti di dimensioni
    ormai consistenti potessero scontrarsi, con la concreta eventualità che un tale contatto
    risultasse distruttivo.
 Oggi questa idea costituisce un punto fermo e irrinunciabile della planetologia.
 Alla luce, poi, delle ultime conoscenze acquisite grazie alle missioni delle sonde
    spaziali (Voyager, Pioneer, Galileo e NEAR per citare solo le missioni più
    eclatanti
) ed alle simulazioni numeriche al computer (applicate in modo sistematico
    anche per cercare di capire i meccanismi dinamico-evolutivi degli asteroidi, sulla scia
    dell'idea di Hirayama), oggi c'è la certezza che il meccanismo degli urti tra i
    planetesimali in via di formazione abbia giocato un ruolo cardine nei processi evolutivi
    dell'intero Sistema Solare
 Questo non significa solamente riconoscere che l'accrescimento dei planetesimali sia
    avvenuto a seguito di "urti costruttivi", in grado cioè di non disperdere nello
    spazio dopo l'impatto i materiali costituenti i corpi originari, ma accettare (e talvolta
    richiedere espressamente per poter avanzare ipotesi plausibili in merito ad alcune
    situazioni) la presenza di urti molto più energetici, veri e propri colossali "colpi
    di biliardo" cosmici in grado di mettere a repentaglio la stessa stabilità fisica
    degli oggetti già formati.
 Fino alla prima metà degli anni '60 gli
    scienziati, effettivamente, non avevano a disposizione molti dati per poter considerare
    percorribile l'ipotesi di una azione così massiccia e generalizzata del fenomeno
    impattivo nell'evoluzione dei corpi del Sistema Solare.Gli stessi crateri lunari, considerato il loro elevatissimo numero e le ciclopiche
    dimensioni di alcuni di essi, non venivano interpretati come vestigia di eventi impattivi
    che avevano interessato il nostro satellite, ma si avanzavano spiegazioni meno traumatiche
    e più vicine alle manifestazioni geologiche tipiche della Terra, ricorrendo ai fenomeni
    vulcanici e alla ricaduta sulla superficie lunare dei massi che tali eruzioni avevano
    violentemente scagliato in aria.
 Storicamente fu proprio questa ipotesi endogena la prima ad essere proposta per rendere
    ragione della superficie estremamente rugosa e irregolare del nostro satellite; nella sua
    forma iniziale, tale idea si deve a R. Hooke che, nel 1665, propose che i crateri lunari
    fossero dovuti all'esplosione di vapori o gas provenienti dal sottosuolo e raccoltisi
    presso la superficie in gigantesche bolle.
 Dopo di lui vi furono anche altre "variazioni sul tema", quale ad esempio
    l'ipotesi mareale, che attribuì le formazioni lunari al consolidamento sulla superficie
    di materiale proveniente dall'interno, sollecitato dinamicamente dall'attrazione
    gravitazionale terrestre; oppure l'ipotesi vulcanica in senso stretto, secondo la quale
    l'origine dei crateri lunari poteva essere identificata nell'attività di vulcani, anche
    se morfologicamente diversi da quelli terrestri.
 Accanto ai sostenitori di questa visione endogena (e talvolta in acceso contrasto con
    essi) vi era però anche chi sosteneva che si potesse ricondurre la morfologia
    superficiale del nostro satellite all'azione dirompente di proiettili cosmici provenienti
    dallo spazio interplanetario; la paternità di tale ipotesi meteoritica è attribuibile a
    F. von Gruithuisen (1829) e ad R.A. Proctor (1873).
 Per molti anni le due differenti visioni si sono contese, anche aspramente, il campo,
    finché non è stata da tutti compresa e accettata l'innegabile presenza e la fondamentale
    importanza del ruolo degli impatti in tutta la storia del Sistema Solare.
 E gran parte del merito va senza dubbio attribuita alle missioni spaziali che, come si
    diceva poc'anzi, ci hanno servito su un piatto d'argento l'evidenza che tutte le superfici
    dei pianeti e dei satelliti (e non solo di quelli appartenenti al cosiddetto Sistema
    Solare interno) sono caratterizzate dalla presenza di una fitta craterizzazione.
 Limitandoci unicamente ai corpi celesti a noi più vicini, ricordiamo che la scoperta dei
    crateri su Marte è dovuta alle osservazioni del Mariner 4 nel 1965, mentre nel 1971
    Mariner 9 mostrò la craterizzazione dei due satelliti marziani Phobos e Deimos.
 La craterizzazione di Venere, da sempre nascosta dallo spesso strato di nuvole che riveste
    il pianeta, è stata rivelata per la prima volta nel 1972 grazie ad osservazioni radar,
    mentre quella di Mercurio ci è nota in seguito alle fotografie inviate nel 1974 dalla
    sonda Mariner 10.
 E non si può, a proposito del contributo delle sonde spaziali, non accomunare nel ricordo
    i meravigliosi tour delle due sonde Voyager (lanciate nel 1977), le fantastiche immagini
    inviateci dalla Galileo (la cui missione è iniziata il 18 ottobre 1989) durante i suoi
    incontri ravvicinati con il sistema satellitare di Giove e con gli asteroidi Gaspra e Ida
    ed il panorama non meno spettacolare dellasteroide Mathilde, mostratoci dalla sonda
    NEAR che, partita il 17 febbraio 1996 con destinazione Eros, è dal 14 febbraio 2000 in
    orbita intorno all'asteroide.
 Tutte queste immagini provano senza ombra di dubbio che il fenomeno della craterizzazione
    è presente in tutti i corpi del Sistema Solare e che l'origine impattiva debba esserne
    considerata la causa primaria. Se per spiegare la craterizzazione dei corpi maggiori,
    infatti, accanto a quella impattiva, si potrebbe anche suggerire l'ipotesi endogena, non
    così sicuramente si potrebbe fare per i corpi di dimensioni più modeste, assolutamente
    inadeguati sia ad innescare che a mantenere attivo tale processo, a meno che non
    intervengano pesanti fattori esterni (vedi quanto accade su Io, satellite di Giove,
    caratterizzato da una parossistica attività vulcanica).
 La presenza di crateri anche sui corpi minori, inoltre, è la chiara indicazione che il
    meccanismo impattivo è di tipo gerarchico, perfettamente in linea, dunque con la visione
    a gradini del processo evolutivo del Sistema Solare.
 La stringente considerazione che la
    craterizzazione fosse un fenomeno globale non poteva non comportare una riconsiderazione
    della collocazione del nostro pianeta in questo tiro a segno cosmico: una vera e propria
    rivoluzione culturale nella quale un posto preminente penso si debba riconoscere all'opera
    di ricercatore di Eugene Shoemaker. A lui si deve lo studio approfondito (fu l'argomento
    della sua tesi di laurea) del Meteor Crater in Arizona e la ricostruzione, ritenuta valida
    tuttora, della dinamica dell'evento e della composizione del corpo impattante.Un elemento molto importante presente nello studio del Cratere di Barringer effettuato dal
    Dr. Shoemaker è l'identificazione della coesite (una forma di silicio
    che si origina in presenza di elevate pressioni e temperature) quale prova
    incontrovertibile dell'origine da impatto, un marchio che, unito a tutte le altre
    manifestazioni di metamorfismo da shock, porterà, dalla fine degli anni '60 in poi, ad un
    incredibile aumento del numero di identificazioni di crateri da impatto terrestri.
 Poche righe fa ho usato il termine di rivoluzione culturale, e per qualcuno potrà suonare
    eccessivo, ma io sono convinto che non venga sufficientemente sottolineato il grande
    cambiamento di visione che comporta il riconoscere anche per la Terra il ruolo di
    bersaglio cosmico.
 L'immagine del nostro Pianeta quale luogo privilegiato del Sistema Solare ha subito un
    ulteriore scossone, certamente non così micidiale come quello inflitto da Copernico (in
    quel caso, addirittura, si proveniva da una visione caratterizzata da una posizione di
    riguardo della Terra rispetto all'Universo intero
), ma comunque sufficiente a non
    farci considerare più così sicuro il continuo viaggio intorno alla nostra stella e a
    costringerci a chiederci se davvero è corretto ciò che riteniamo di conoscere del nostro
    passato (la diatriba sulle estinzioni periodiche e sulle loro cause è ben lungi
    dall'essere risolta, anzi si arricchisce continuamente di nuovi elementi).
 Ma lasciamo in disparte l'analisi (solo apparentemente filosofica
) della nuova
    immagine che la consapevolezza del ruolo fondamentale degli impatti ci può suggerire per
    la Terra e rivolgiamoci, con il senno di poi, ad evidenziare quegli elementi che possono
    suggerire la presenza attiva e fondamentale del meccanismo impattivo nel Sistema Solare.
 Il primo elemento che si può mettere sul
    tappeto è certamente l'obliquità dei pianeti, cioè l'angolo tra il
    piano equatoriale e quello dell'eclittica (vedi tabella): 
      
        | Pianeta | Obliquità |  | Pianeta | Obliquità |  
        | Mercurio | 0° |  | Giove | 3° 1' |  
        | Venere | ~ 177° |  | Saturno | 26° 7' |  
        | Terra | 24° 25' |  | Urano | 97° |  
        | Marte | 25° 2' |  | Nettuno | 29° 8' |  Come si può notare dai dati riportati (nell'elenco manca Plutone
    sia per la peculiarità della sua orbita e sia perché le recenti scoperte degli oggetti
    trans-nettuniani potrebbero suggerire per esso una differente e più consona
    classificazione), la condizione in cui si trovano tutti i pianeti è caratterizzata dal
    fatto che l'equatore non è allineata con il piano orbitale, ma forma un angolo il cui
    valore è, in alcuni casi, tutt'altro che trascurabile; una situazione che, ipotizzando un
    accrescimento graduale da polveri, non si riuscirebbe a spiegare in modo credibile,
    dovendo necessariamente ricorrere all'ipotesi di disomogeneità dinamiche locali, la cui
    origine, però, sarebbe un vero mistero.Come infatti motivare il manifestarsi dell'anomala situazione di Venere, il cui senso di
    rotazione è opposto a quello che caratterizza ogni altro pianeta? Per quale ragione e
    attraverso quale meccanismo fisico la porzione di nube primordiale collocata a quella
    distanza dal Sole avrebbe potuto innescare un moto rotatorio in senso contrario?
 Guardando la tabella si può notare che l'unico pianeta che fa eccezione a tale situazione
    è Mercurio, ma le sue modeste dimensioni e soprattutto l'estrema vicinanza con il Sole
    (solamente 0.38 U.A.) possono dinamicamente rendere ragione della sua situazione orbitale,
    come dimostra anche il profondo legame risonante tra periodo orbitale e rotazionale
    (stanno in un rapporto 3:2) e tra periodo rotazionale del Sole e analogo periodo di
    Mercurio (il rapporto è 7:3).
 Ed è proprio perché la sua danza cosmica è pesantemente condizionata dalla presenza
    invadente del Sole che Mercurio deve essere considerato l'eccezione che conferma la
    regola.
 Una regola alla quale non sfuggono neppure i pianeti più massicci, come mostra la
    situazione di Urano, letteralmente coricato sul suo piano orbitale.
 Quale spiegazione avanzare, allora, per rendere ragione della
    presenza di questa obliquità orbitale che caratterizza tutti i pianeti?
 La spiegazione più semplice (perché tale appare con il senno di poi
) richiede
    espressamente il verificarsi di colossali e violentissimi impatti, non limitati solamente
    alla zona più interna (vale a dire ai cosiddetti pianeti terrestri), ma presenti in modo
    ugualmente intenso in tutto il Sistema Solare non solo nei momenti della sua formazione,
    ma anche nelle epoche successive.
 Scontri inimmaginabili, in grado di intervenire pesantemente non solo sulla morfologia
    superficiale, ma sulla stessa integrità fisica del bersaglio e sulle sue caratteristiche
    dinamiche; il modello proposto nel 1989 da W. Benz e A.G.W. Cameron per giustificare la
    situazione di Urano, ad esempio, ipotizza un impattore con dimensioni paragonabili a
    quelle della Terra.
 Un secondo elemento riconducibile all'azione
    degli impatti è la strutturazione stessa del nostro pianeta (ma analogo discorso può
    essere fatto per gli altri pianeti di tipo terrestre), nel quale si è verificata una
    drastica differenziazione tra gli elementi più pesanti (fondamentalmente ferro e nickel)
    e quelli meno pesanti (vari composti silicati quali olivina e pirosseni), differenziazione
    avvenuta in seguito a ripetuti e globali fenomeni di fusione sfociati nella discesa verso
    il centro del pianeta degli elementi più pesanti, con la conseguente separazione tra
    nucleo e mantello.Ma per giungere a ciò è richiesta una spaventosa quantità di energia, che comunque una
    sorgente di tipo collisionale è certamente in grado di fornire, soprattutto se si
    considera anche il tasso di impatti che avrebbe caratterizzato le fasi iniziali del
    Sistema Solare.
 Il quadro generalmente accettato per queste fasi iniziali (desunto in gran parte dallo
    studio della craterizzazione lunare) prevede infatti la presenza di un catastrofico
    bombardamento che ha coinvolto oggetti con dimensioni anche superiori ai 100 km e la cui
    intensità è diminuita drasticamente circa 3850 milioni di anni fa.
 Una testimonianza concreta della violenza degli impatti negli stadi iniziali della vita
    del Sistema Solare ci proviene dallo studio delle superfici della Luna e di Mercurio.
 
      
        | 
 | Il grafico illustra la velocità di craterizzazione sulla Luna. I dati si riferiscono al numero di crateri di varie regioni lunari la cui età è nota
        grazie alle analisi dei campioni rocciosi del nostro satellite.
 Si può notare il brusco calo del tasso di produzione dei crateri cui si accennava nel
        testo.
 Le cuspidi indicano che la diminuzione della craterizzazione è avvenuta passando anche
        attraverso brevi aumenti dell'intensità del bombardamento
 (tratto da: W.K. Hartmann, Le Scienze n. 105 - maggio 1977)
 | Osservando le numerose immagini di questi due corpi a nostra
    disposizione, non può non balzare subito all'occhio l'incredibile somiglianza delle due
    superfici, ambedue caratterizzate dalla presenza di una fitta craterizzazione, che va
    dalle piccole strutture ai grandi bacini di impatto.Ambedue i corpi costituiscono la conferma di un intenso bombardamento che, perlomeno, ha
    caratterizzato tutta la zona interna del Sistema Solare e che si è protratto nel tempo
    non a ritmo costante ma con una graduale diminuzione sia delle dimensioni dei corpi
    impattanti che del numero stesso degli impatti (questi dati si possono desumere
    dall'osservazione delle dimensioni e della sovrapposizione dei vari crateri).
 Ma una situazione ben più violenta ci viene
    suggerita allorché spingiamo la nostra analisi un po' più in profondità, prendendo in
    considerazione i valori delle densità di Mercurio e del nostro satellite.Se consideriamo le densità dei pianeti a pressione zero, cioè ipotizzando per essi una
    struttura sferica senza gli effetti della compressione, il valore risultante della
    densità di Mercurio (5.3 g/cm3) è superiore a quello di tutti gli altri
    pianeti di tipo terrestre e questo ci porta a ipotizzare una struttura formata da un
    nucleo ferroso avvolto da una sottile crosta composta prevalentemente da silicati.
 Mercurio, dunque, così simile alla Luna in superficie (anche come composizione chimica),
    avrebbe un nucleo interno uguale a quello della Terra, verosimilmente proveniente, come è
    avvenuto per il nostro pianeta, dal meccanismo della differenziazione nucleo-mantello.
 La domanda cruciale, a questo punto, è la seguente: è sufficiente invocare la maggiore
    temperatura causata dall'estrema vicinanza del Sole per spiegare la carenza di sostanze
    più leggere (ipotesi dell'evaporazione del mantello) oppure è necessario ricorrere ad un
    processo meccanico di asportazione dei materiali (ipotesi della rimozione collisionale)?
 Ambedue le ipotesi possono reggere, ma, alla luce di quanto stiamo dicendo riguardo ai
    primi stadi di formazione del Sistema Solare caratterizzati da planetesimali in moto
    caotico destinati ad essere l'uno per l'altro o proiettile o bersaglio, l'ipotesi di un
    gigantesco urto che ha privato Mercurio del suo mantello di silicati appare certamente
    molto plausibile. Tale impatto, da collocare nei primi momenti del periodo di intenso
    bombardamento, potrebbe inoltre rendere ragione dell'inclinazione dell'orbita rispetto
    all'eclittica (7 gradi), maggiore di quella di tutti gli altri pianeti (escluso Plutone,
    alla cui particolarità abbiamo già fatto un accenno).
 Le correnti simulazioni per il fenomeno ipotizzano un proiettile dotato di massa di circa
    un quinto di quella del pianeta ed una velocità di impatto di 20 km/sec.
 
      
        |  | Mercurio - Bacino Caloris.Sono visibili nella parte sinistra dell'immagine gli anelli concentrici di questo
        immenso bacino di impatto (cratere multiring).
 Il diametro della struttura,  ricavato valutando l'anello più elevato, è di
        1.340 km; se però si considera  l'anello più esterno  il valore del diametro
        (pur nella incertezza delle misurazioni dovuta alla sua discontinuità) raggiunge i 3.700
        km.
 | Se il problema per Mercurio era trovare una spiegazione alla sua elevata
    densità, per la Luna siamo di fronte ad una situazione opposta. Dal momento che la sua
    densità (valore medio 3.34 g/cm3) è molto prossima a quella del mantello
    terrestre, è sempre stato considerato logico ipotizzare per il nostro satellite una
    composizione di silicati e, necessariamente, la mancanza di quel nucleo pesante che può
    essere considerato una caratteristica saliente dei corpi planetari posti in questa zona
    del Sistema Solare. Una svolta fondamentale si è avuta allorché, grazie alla
    possibilità di esaminare direttamente le rocce lunari riportate a Terra dalle missioni
    Americane e Sovietiche, si è scoperto che la composizione chimica del mantello terrestre
    era molto diversa da quella delle rocce lunari, che risultano completamente prive di acqua
    e notevolmente arricchite di elementi refrattari.Svanita in tal modo la possibilità di ipotizzare per il mantello terrestre e quello
    lunare una medesima origine, si doveva abbandonare anche la teoria che proponeva per il
    nostro satellite una formazione coeva alla Terra, come pianeta doppio. Poiché altre
    ipotesi (quale ad esempio la cattura da un'orbita indipendente o quella della fissione
    causata dalla rapida rotazione terrestre) dovevano essere abbandonate per difficoltà
    dinamiche, era necessario trovare altri modelli che fossero in grado di risolvere sia il
    problema dell'elevato contenuto di momento angolare del sistema Terra-Luna, per altro noto
    da molto tempo, sia il problema chimico della strana composizione del nostro satellite.
 Prende così corpo l'ipotesi di un catastrofico impatto della Terra con un planetesimale
    (i modelli propongono per il proiettile dimensioni dell'ordine di quelle di Marte),
    impatto che sicuramente potrebbe rendere ragione del momento angolare del sistema
    Terra-Luna, non giustificabile ricorrendo solamente a casuali impatti di minori
    dimensioni. Ma potrebbe anche spiegare le differenziazioni chimiche se, partendo dal
    presupposto che il corpo destinato a colpire la Terra fosse già differenziato in nucleo e
    mantello, si ipotizza che, in seguito all'urto, il suo nucleo avrebbe contribuito ad
    incrementare quello terrestre, mentre il mantello, inizialmente disperso in un disco, si
    sarebbe successivamente riaggregato per originare la Luna.
 L'accrezione e la solidificazione della crosta lunare verrebbero collocate 4440 milioni di
    anni fa, epoca nella quale iniziò, con una durata di circa 500 milioni di anni, il
    periodo di intenso bombardamento responsabile della creazione di quegli smisurati bacini
    d'impatto, in seguito colmati da colate basaltiche, che attualmente costituiscono i Mari
    lunari.
 Si può avere un'idea dei giganteschi impatti che hanno caratterizzato il nostro satellite
    osservando la figura (adattata da: Wilhelms D.E., USGS Prof. Paper 1348, 1987): in
    essa vengono schematizzate la posizione e le dimensioni approssimative dei maggiori bacini
    d'impatto identificabili sulla faccia visibile della Luna (si notino le gigantesche
    dimensioni dell'Oceanus Procellarum, con diametro apparente di 3200 km).
 Bisogna precisare che, mentre per alcune delle strutture indicate nello schema l'origine
    impattiva è generalmente accettata, per altre vi sono ancora alcune incertezze, che,
    comunque, non scalfiscono assolutamente l'impressionante immagine di bersaglio cosmico che
    il nostro satellite ci offre.
 Nel grafico sono stati inoltre inseriti anche alcuni crateri di riferimento.
 
      
        | 
 | Legenda: 1.Procellarum
 2. Imbrium
 3. Serenitatis
 4. Tranquillitatis
 5. Nectaris
 6. Fecunditatis
 7. Nubium
 8. Humorum
 9. Grimaldi
 10. Orientale
 11. Mutus - Vlacq
 12. Polo Sud - Aitken
 13. Australe
 14. Crisium
 15. Marginis
 16. Smythii
 A. Aristarchus
 B. Archimedes
 C. Copernicus
 D. Tycho
 | Ma nel Sistema Solare non ci sono
    solamente la Luna e Mercurio
Proseguiamo perciò il nostro cammino alla ricerca di testimonianze relative alla presenza
    e al ruolo degli impatti, e lo facciamo cominciando dai pianeti a noi più vicini.
 Venere, per molti aspetti considerato il pianeta gemello della Terra, ha nella
    densa atmosfera la sua caratteristica saliente, caratteristica che ha sempre costituito
    una barriera insuperabile per poter effettuare una anche minima analisi superficiale.
    L'ostacolo è stato rimosso ricorrendo alle osservazioni radar, effettuate sia dai
    radiotelescopi terrestri (soprattutto Arecibo in occasione delle congiunzioni Terra-Venere
    verificatesi negli anni 1975 e 1977) sia dagli strumenti collocati sulle sonde (ricordiamo
    per tutte le sovietiche Venera 15 e 16 lanciate nel giugno 1983); il merito della
    dettagliata conoscenza attuale della morfologia superficiale del pianeta, però, è da
    attribuire principalmente alla sonda Magellan (lanciata il 4 maggio 1989) che, a partire
    dal 1990, ha fornito una mappa topografica dettagliata di oltre il 98% della superficie,
    con risoluzione di 120 m nella zona equatoriale e 250 m ai poli.E da tale mappa risulta evidente che anche sulla superficie di Venere è possibile
    riconoscere i tipici crateri da impatto, con diametri compresi tra 3 e 280 km ed una
    distribuzione abbastanza uniforme sull'intera superficie del pianeta. E' stato inoltre
    possibile identificare bacini d'impatto di enormi proporzioni, quale ad esempio una
    struttura circolare (di coordinate 35° Sud e 135° Est) di ben 1800 km di diametro. Le
    strutture individuate non sembrano mostrare, in oltre il 60% dei casi, effetti di
    modificazione imputabili a processi geologici o climatici ed in questo frangente Venere si
    discosta molto da quanto avviene sulla Terra, sulla quale il meccanismo di cancellazione
    delle strutture superficiali è decisamente più attivo.
 Il fatto che non siano stati individuati crateri inferiori a 3 km è da imputare alla
    potente azione di filtro giocata dalla densa atmosfera venusiana, in grado di distruggere
    i meteoroidi al di sotto di una certa dimensione oppure di frenarne la caduta al punto da
    non produrre cratere al momento dell'impatto con la superficie. In ogni caso si dovrebbe
    manifestare al suolo l'azione dell'onda d'urto trasmessa dal meteoroide all'atmosfera e
    tale potrebbe essere il meccanismo che ha originato alcune particolari strutture
    superficiali.
 Utilizzando il conteggio dei crateri quale strumento di datazione superficiale, si può
    ipotizzare per l'attuale superficie di Venere una età di 500 milioni di anni e questo
    implica che si sia verificato un catastrofico episodio di ringiovanimento associabile,
    probabilmente, ad una intensa attività di tipo vulcanico che ha riversato sulla
    superficie del pianeta uno strato di lava ed ha in tal modo cancellato ogni traccia di
    precedenti impatti.
 La testimonianza maggiore in merito al ruolo che gli impatti hanno giocato per Venere è,
    però, il già accennato moto di rotazione retrogrado del pianeta, unico in tutto il
    Sistema (eccettuando l'altro caso particolare costituito da Urano), riconducibile ad un
    gigantesco urto avvenuto nei momenti iniziali della sua formazione, allorché le
    dimensioni dei planetesimali che entravano in collisione erano decisamente superiori agli
    impattori delle epoche successive, quando le orbite si erano ormai stabilizzate e le zone
    più "a rischio" si erano quasi completamente svuotate.
 Marte presenta una strana conformazione superficiale, accomunando due emisferi
    (separati da un cerchio massimo inclinato di circa 35° rispetto all'equatore) con
    caratteristiche completamente differenti, uno (quello meridionale) ricco di crateri,
    canali e profonde depressioni la cui morfologia può richiamare gli altipiani lunari e
    l'altro (quello settentrionale) caratterizzato da pochi crateri e dalla presenza di
    numerose strutture vulcaniche estinte.L'analisi delle strutture d'impatto ci permette alcune considerazioni sulla composizione
    del suolo marziano suggerendo l'abbondante presenza di acqua sotto forma di permafrost:
    gli ejecta dei crateri d'impatto, infatti, mostrano un contorno lobato (e non a raggiera
    come gli ejecta dei crateri lunari) interpretabile come un avanzare di fango, formatosi
    dallo scioglimento del terreno ghiacciato ad opera del calore generato dall'impatto e
    successivamente congelato dopo aver ricoperto la zona circostante.
 
      
        |  | Cratere da impatto sulla superficie di Marte: si può notare il
        caratteristico contorno lobato degli ejecta, indice della presenza di acqua. | Molto dibattuto è il problema dell'acqua sulla superficie di Marte, la
    cui presenza in epoche passate è testimoniata in modo ineccepibile da molteplici
    strutture per le quali è ormai fuori discussione l'origine da fenomeni di natura erosiva.
    Una possibile risposta al problema dell'origine di queste grandi quantità di acqua è
    suggerita da Christopher F. Chyba ricorrendo all'intenso bombardamento ad opera di comete
    ed asteroidi carbonacei nell'epoca iniziale della formazione del Sistema Solare, un
    processo in grado di apportare sulla superficie del pianeta rosso uno strato uniformemente
    distribuito di 10-100 metri d'acqua: ancora una volta, dunque, viene chiamato in causa il
    meccanismo degli impatti. Ormai siamo entrati nel cosiddetto Sistema
    Solare esterno, ed anche qui le testimonianze in merito al ruolo giocato dagli impatti
    proprio non mancano
La Fascia degli Asteroidi è stata da sempre considerata, nell'immaginario
    collettivo, il luogo più indicato per il verificarsi di collisioni. Si è sempre
    raffigurato tale zona, infatti, come fittamente popolata di corpi in moto caotico e dunque
    destinati, inevitabilmente, a cozzare l'un contro l'altro. Ed in effetti l'idea delle
    famiglie dinamiche di Hirayama si colloca alla perfezione in questo quadro, mostrando come
    tali urti possano talvolta essere così violenti da distruggere completamente i corpi in
    essi coinvolti. In forza di queste considerazioni, l'iconografia tradizionale degli
    asteroidi li rappresentava come corpi irregolari, la cui morfologia superficiale non
    doveva essere molto dissimile da quella rivelata dalle immagini dei due satelliti di Marte
    Phobos e Deimos.
 E proprio tale morfologia è stata puntualmente rivelata allorché la sonda Galileo ha
    trasmesso a Terra le immagini di Gaspra e Ida e, successivamente, la NEAR quelle di
    Mathilde e di Eros: anche su questi frammenti cosmici facevano mostra di sé i segni
    lasciati dagli impatti, testimonianze silenziose di un passato veramente
    movimentato.
 Non solo crateri più o meno fitti e di svariate misure, ma anche vere e proprie voragini,
    le cui impressionanti dimensioni lasciano talvolta perplessi sul fatto che il corpo non si
    sia disintegrato: veramente incredibile quella di oltre 20 km presente su Mathilde, un
    asteroide che ha un diametro di 52 km!!!.
 
      
        |  | Mathilde si può vedere in primo piano il cratere di 20 km di diametro al quale si è
        accennato poco sopra.
 L'immagine è stata ripresa dalla sonda NEAR.
 | Certo non possiamo aspettarci che
    i giganti gassosi (Giove e Saturno) possano offrirci una superficie cosparsa
    di crateri come quella dei pianeti terrestri, anche perché la "superficie" di
    questi corpi costituiti soprattutto da gas è molto lontana dall'immagine tradizionalmente
    associata a questo termine... In occasione dell'impatto con la cometa Shoemaker-Levy 9
    (luglio 1994) si sono potuti notare gli impressionanti ed evidentissimi segni lasciati dai
    frammenti sulla superficie di Giove, ma si è potuto notare anche che nel volgere di un
    anno le tracce erano notevolmente diminuite in intensità, chiara indicazione della
    potente azione dell'atmosfera gioviana, in grado di disperdere rapidamente le polveri ed i
    gas originatisi nell'impatto e rimasti in sospensione. 
      
        |  | Le macchie nere dell'immagine a sinistra sono  le
        cicatrici lasciate su Giove dagli impatti della cometa Shoemaker-Levy 9. | Se Giove è avaro di informazioni circa il ruolo giocato dagli impatti,
    non si può dire analoga cosa dei suoi satelliti.La superficie di Ganimede racconta, pur nella notevole diversificazione che la
    caratterizza, un passato di violenti impatti, e la diversità nella distribuzione dei
    crateri può ragionevolmente essere interpretata come una conseguenza delle differenti
    età dei terreni. Se interpretiamo le caratteristiche strutture superficiali come una
    traccia di intensa e travagliata attività geologica, dobbiamo anche ipotizzare che tale
    attività abbia inevitabilmente nascosto gli impatti più antichi e questo potrebbe
    spiegare la presenza solo di strutture relativamente piccole e l'assenza dei giganteschi
    bacini d'impatto rilevabili altrove. Questo, comunque, non impedisce anche a Ganimede di
    fare sfoggio di una struttura di 550 km (il bacino Gilgamesh).
 Callisto è per dimensioni uguale a Mercurio e, proprio come Mercurio, presenta una
    superficie con una fitta craterizzazione, con la presenza di larghi bacini d'impatto (i
    due maggiori sono Valhalla con diametro di 4000 km e Asgard di oltre 1600 km), segnale
    che, a differenza di quanto è avvenuto per Ganimede, la sua superficie non è stata
    ringiovanita e rimodellata dalla attività geologica.
 
      
        |  | Superficie di Ganimede La struttura raffigurata è una catena di crateri riconducibile ad un corpo disintegratosi
        in frammenti prima di colpire la superficie, proprio come è accaduto alla Shoemaker-Levy
        9.
 | Possiamo aspettarci poco dall'analisi della superficie di Io in
    merito all'evidenza ed al ruolo giocato dagli impatti: l'intenso riscaldamento interno
    indotto dall'azione di marea generata dalla vicinanza di Giove ha nei fenomeni vulcanici
    il suo tipico e naturale epilogo e questo processo influenza pesantemente la morfologia
    superficie del satellite. La superficie di Io, infatti, è ricoperta da una coltre
    composta dal materiale eruttato continuamente dai vulcani e si calcola che, al tasso di
    produzione attuale, nel corso di un milione di anni tale materiale possa raggiungere il
    ragguardevole spessore di 10 metri.Anche da Europa ci provengono scarse informazioni sul tasso di impatti che ha
    caratterizzato il sistema satellitare di Giove, ma per ben altri motivi. La superficie del
    secondo satellite galileiano, come d'altra parte è logico aspettarsi in questa zona così
    lontana dal Sole, è completamente ricoperta da uno spesso strato di ghiaccio e pertanto,
    in caso di impatto, non sussistono le premesse ambientali perché una struttura craterica
    si possa conservare per lunghi periodi. L'analisi delle immagini inviate dalle sonde
    (soprattutto quelle scattate dalla Galileo nel corso del flyby effettuato il 6 novembre
    1997) ci permette comunque di rilevare, sparsi tra le caratteristiche striature della
    superficie di Europa, numerosi crateri piccoli e grandi: si può senza difficoltà
    identificare l'evidente struttura a raggiera di Pwyll (un cratere recente con diametro di
    26 km) e, con altrettanta facilità si può notare, in una immagine del 4 aprile 1997, una
    struttura craterica multi ring di 140 km di diametro.
 Una situazione tormentata imputabile per alcuni
    aspetti al meccanismo degli impatti ci viene offerta anche dal sistema di Saturno.
    Tralasciamo il discorso relativo agli anelli (tra l'altro non più esclusiva
    caratteristica di questo pianeta, dopo le scoperte di analoghe strutture per Giove, Urano
    e Nettuno) la cui formazione può essere spiegata non solo ricorrendo ad un impatto in
    grado di sbriciolare un satellite, ma anche chiamando in causa le intense forze mareali
    del pianeta o meccanismi accretivi partendo da un disco originario intorno al pianeta.L'esempio che intendo evidenziare è offerto dal satellite Mimas, un oggetto di
    circa 390 km di diametro, sulla cui superficie spicca il gigantesco cratere Herschel. Le
    dimensioni di questa struttura (ben 130 km di diametro) ci inducono a ritenere che
    l'impatto che l'ha generato sia stato ad un passo dal causare danni strutturali ben più
    disastrosi, e la stessa inclinazione orbitale di Mimas (circa 1,5°) non è escluso che si
    possa ragionevolmente attribuire proprio a tale evento.
 
      
        | 
 |  
        | Mimas ed il gigantesco cratere Herschel. | Mimas, analogamente a Rhea e Giapeto, mostra inoltre una
    saturazione di piccoli crateri ed una carenza di quelli maggiori di 30 km, indizio che
    l'epoca della sua formazione è recente, collocabile cioè in un periodo in cui gli
    impattori erano ormai diventati più piccoli e quelli di maggiori dimensioni costituivano
    solamente dei casi isolati. Ne consegue che si può ipotizzare per tali satelliti un
    meccanismo di creazione-distruzione che si può essere attivato più volte nel corso della
    loro storia. Per quanto riguarda Urano si è già accennato in
    precedenza al suo asse di rotazione praticamente adagiato sull'orbita, indicazione chiara
    che si sono verificati violenti episodi collisionali che hanno profondamente influenzato
    la sua formazione. Le indicazioni provenienti dal suo sistema satellitare non ci
    consentono di trarre molte conclusioni, anche perché le superfici dei satelliti mostrano
    talvolta morfologie quasi opposte. Mentre Ariel e Titania, infatti, con le
    loro superfici abbastanza giovani rivelano di essere stati dei corpi geologicamente attivi
    e Umbriel, che richiama molto la morfologia di Callisto, esibisce una superficie
    praticamente immutata dal termine del periodo di intenso bombardamento iniziale, Miranda
    mostra sia terreni molto antichi e fitti di crateri sia terreni che risultano molto più
    recenti, forse i più giovani tra quelli riscontrabili nel sistema satellitare di Urano.
    Quest'ultimo satellite, inoltre, mostra una inclinazione orbitale di oltre 4 gradi,
    evidente indizio di un passato piuttosto burrascoso. E perché dunque non collegare ad un
    unico evento impattivo sia questa anomala inclinazione dell'orbita, maggiore di quella
    degli altri satelliti di Urano, sia il ringiovanimento di una parte della superficie,
    meccanismo molto efficiente nel caso di superfici costituite quasi esclusivamente da
    ghiacci come sono quelle dei corpi collocati in questi angoli remoti del Sistema Solare? E siamo giunti al secondo gigante di ghiaccio, Nettuno. Anche in questo caso le
    indicazioni dirette per un approfondimento del tema degli impatti sono piuttosto scarse;
    le immagini più recenti del pianeta (inviate dal Voyager 2 nell'agosto 1989) mostrano una
    enigmatica superficie verde-azzurro con evidenti segni di complessi moti atmosferici, ma
    nulla ci è dato di conoscere della superficie sottostante.Certamente più utili per i nostri fini le immagini relative alla superficie di Tritone,
    che mostrano la presenza sia di complesse strutture di difficile interpretazione sia
    quella più familiare dei bacini di impatto, quasi cancellati dal materiale effusivo che
    ha colmato la cavità iniziale (proprio in tale fenomeno e nella sua collocazione in
    un'epoca recente si potrebbe ricercare la spiegazione dell'assenza di altri crateri).
 Ma Tritone, indirettamente, ci può dare una indicazione molto più importante.
 Il sistema satellitare di Nettuno (troppo anomalo per essere quello originario) ha da
    sempre spronato i planetologi ad identificare le cause della sua stranezza, ma non sempre
    le teorie proposte erano in grado di rispondere a tutti gli interrogativi. L'idea
    attualmente accettata è quella proposta da P. Farinella e collaboratori nel 1980, che
    identifica nella cattura di Tritone lo sconvolgimento del primitivo sistema satellitare di
    Nettuno. Con tale ipotesi si può spiegare non solo il moto retrogrado del satellite, ma
    anche l'esistenza delle complesse strutture superficiali attribuibili alle forti
    sollecitazioni gravitazionali che ne avrebbero riscaldato l'interno.
 Dopo la scoperta degli oggetti trans-nettuniani si è fatta strada l'idea che Tritone e
    molti altri corpi celesti (Plutone con il suo satellite Caronte, il satellite di Saturno
    Phoebe, Chirone ed il gruppo dei Centauri) appartengano proprio a questa tipologia di
    oggetti e dunque provengano dalla cosiddetta Fascia di Kuiper-Edgeworth.
 Mentre Tritone è stato direttamente catturato da Nettuno e altri oggetti sono stati
    bloccati in un'orbita stabile (Plutone, ad esempio, e un gran numero di Kuiper Belt
    Objects sono in risonanza orbitale con Nettuno), appare molto ragionevole l'ipotesi che
    altri "Tritoni" possano essere entrati nella zona planetaria del Sistema Solare,
    terminando bruscamente la loro lunga corsa sulla superficie di un pianeta con evidenti
    drammatiche conseguenze (basti pensare che Tritone ha un diametro di 2705 km
).
 Questa "ragionevole ipotesi", inoltre, renderebbe possibile il verificarsi di
    impatti di dimensioni gigantesche anche in epoche successive al bombardamento iniziale che
    ha caratterizzato l'evoluzione del Sistema ed al quale, fino ad ora, abbiamo fatto
    riferimento quale periodo contrassegnato dagli impatti più energetici.
 Siamo così giunti al termine di questo rapido
    viaggio tra i corpi del Sistema Solare alla ricerca di testimonianze sul ruolo degli
    impatti. Ritengo che molti degli argomenti presentati meriterebbero una trattazione ben
    più approfondita dei miei sommari e scarni "appunti di viaggio", ma devo
    rinunciare a farlo perché questo mi porterebbe troppo lontano dalle finalità che mi sono
    prefissato.Resta solo il tempo di trarre qualche conclusione; dal quadro proposto emergono infatti
    alcune idee che ritengo di poter così sintetizzare:
 
      1. Il fenomeno degli impatti ha interessato e
      interessa tutti i corpi del Sistema Solare.I flussi di craterizzazione mostrano situazioni non sempre omogenee tra le varie zone del
      Sistema, tuttavia  il loro studio, che ha nel conteggio dei crateri il dato
      principale, costituisce un ottimo criterio per valutare le epoche di formazione delle
      varie superfici.
 Anche se, chiaramente, è molto arduo (e talvolta impossibile) riuscire a correlare, sulla
      base solamente di questi dati, le fasi geologiche dei vari corpi (sarebbe infatti
      necessario disporre della datazione isotopica dei materiali), emerge ugualmente, quale
      dato generale, il passaggio da una situazione di intensa craterizzazione iniziale ad una
      fase meno violenta.
 2. Gli episodi impattivi non hanno avuto
      solamente uno sbocco nella modificazione della morfologia superficiale di
      tutti i corpi, ma hanno contribuito anche a cambiare la stessa strutturazione
      interna (differenziazione nucleo/mantello) in quelli sufficientemente grandi. 3. Talvolta i fenomeni di impatto hanno comportato pesanti
      modificazioni di carattere dinamico, testimoniate dalla peculiarità di
      alcune orbite. 4. Per i pianeti di tipo terrestre bisogna sottolineare il
      ruolo degli impatti nel meccanismo di rimozione/creazione delle atmosfere
      planetarie.Le atmosfere attualmente presenti non possono certamente essere quelle originarie, dato
      che la formazione dei pianeti interni si colloca quando ormai il vento stellare aveva
      abbondantemente svuotato di gas il Sistema ancora in formazione.
 Siamo ancora lontani, però, dal poter affermare se le nuove atmosfere siano un fenomeno
      diretto della volatilizzazione degli elementi componenti la superficie planetaria
      innescata dal calore riconducibile agli impatti e/o ad altri fenomeni di tipo endogeno
      oppure vi sia stato un apporto diretto di tali elementi proprio da parte dei proiettili
      cosmici.
 5. Un altro elemento fondamentale da inglobare in ogni
      discorso sugli impatti riguarda la presenza attuale di acqua sul nostro
      pianeta e nel passato del pianeta Marte, come dimostra in modo eloquente la sua morfologia
      superficiale.Dal momento che questa acqua quasi certamente non potrebbe provenire dai planetesimali che
      si stavano aggregando (la temperatura in questa zona del Sistema Solare era troppo
      elevata), si deve ricercarne l'origine in una sorgente esterna.
 6. Certamente non trascurabile, infine, seppure in una visione
      antropica dei fenomeni che stiamo considerando, è il ruolo giocato dagli impatti
      nel "preparare il terreno" alla comparsa dell'uomo, intervenendo in modo attivo
      nelle fasi evolutive della biosfera terrestre, e faccio esplicito riferimento alle grandi
      estinzioni periodiche, che hanno nell'evento K/T, nella scomparsa dei grandi dinosauri e
      nell'ascesa dei mammiferi l'esempio più conosciuto.Per tali eventi, ormai, comincia ad essere accettata - superando le perplessità degli
      anni '80 - la presenza di una componente esterna che, sovrapponendosi alle dinamiche
      evolutive fisiologiche delle specie, ha talvolta imposto drammatici e repentini
      cambiamenti.
 L'immagine proposta, dunque, è quella di un
    Sistema Solare in cui il meccanismo degli impatti è stato molto più di un semplice
    effetto secondario imputabile al grande affollamento di oggetti collocati in orbite che si
    incrociavano pericolosamente.L'idea che mi sono sforzato di mettere in evidenza, spero con sufficiente apporto di
    prove, è che il meccanismo degli impatti è stato ed è tuttora un fondamentale processo
    evolutivo, non solo come momento distruttivo, ma anche come indispensabile e basilare
    elemento costruttivo nella edificazione e nella strutturazione definitiva (o quasi
)
    di tutti i corpi del Sistema Solare.
 Come anche il lettore più distratto avrà certamente notato, non ho parlato delle
    strutture da impatto individuabili sulla superficie della nostra Terra (solo un fugace
    accenno iniziale al Meteor Crater e, al termine, all'evento K/T): è perciò doveroso da
    parte mia - e prima che mi venga chiesto - motivare la mia scelta.
 Al di là di una motivazione scherzosa che potrei addurre (appellandomi alla necessità di
    non superare il limite di sopportazione del lettore
), sono convinto che l'argomento
    del ruolo degli impatti con la Terra necessiti di una trattazione a se stante, non
    solamente perché la Terra è il nostro Pianeta, ma soprattutto per le inevitabili
    problematiche correlate (l'analisi del complesso fenomeno meteoritico, la situazione
    attuale e le prospettive future della ricerca dei NEO, i criteri di l'individuazione delle
    strutture terrestri da impatto e le difficoltà presenti in tale ricerca, le reali difese
    contro possibili impatti futuri, la valutazione di oscuri eventi del passato che
    potrebbero aver influenzato le stesse vicende storiche, ecc
): problematiche la cui
    analisi richiederebbe molte e molte altre pagine (alcune delle quali sto gradualmente
    aggiungendo al mio sito web
), e voci certamente più autorevoli della mia (e anche
    per queste... mi sto organizzando).
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